La salute mentale nella storia

Immersi nel presente, riteniamo che i nostri problemi abbiano sempre avuto la stessa faccia, e naturalmente non è così. Anche la follia segue questo destino: un rapido sguardo storico ai diversi modi in cui è stata considerata può costituire il modo migliore per capire quanto l’idea di follia sia variabile e collegata alle credenze della società e del tempo.  Non si tratta di soddisfare una curiosità accademica ma di riflettere come anche noi, nella nostra epoca, ci poniamo nei confronti della questione della salute mentale.
Il nostro breve percorso è articolato nei seguenti periodi:

Rimanendo nell’ambito della cultura europea consideriamo, in primo luogo, un ampio periodo, dall’Impero romano al Rinascimento italiano, durante il quale si confrontano, coesistendo o alternandosi, quattro diversi tipi di spiegazione della follia.

La data del 200 d.C. non è casuale; dalla fine del secondo secolo, infatti, si afferma nel mondo latino la scuola medica di Galeno, che riprende l’impianto di studi di lppocrate, e che spiega il disturbo mentale come uno “squilibrio umorale” del cervello. Siamo, dunque, di fronte alla spiegazione organica del disturbo mentale.

Ad essa si contrappone la spiegazione magica, strettamente legata alla cultura delle superstizioni, che collega il disturbo mentale a contatto con oggetti o animali, o a congiunzioni astrali: tutt’oggi sopravvive, nella credenza popolare e nel linguaggio, l’idea che alcuni disturbi siano da collegare alle fasi lunari; è “lunatico” è ancora il termine usato per riferirsi  ad una persona che dà segno di mancanza di equilibrio. Il rimedio, secondo questa concezione, consiste in pratiche e rituali magici, uso di filtri, amuleti, formule che dovrebbero proteggere dagli influssi negativi.

Diversa, anche se per molti aspetti simile o coincidente, è la spiegazione religiosa, per la quale colui che manifesta disturbi psichici è un indemoniato, un posseduto da spiriti maligni, l’intera comunità religiosa si sente coinvolta da questo fatto e interviene con provvedimenti che possono essere di segno opposto: la solidarietà, la preghiera, il ricorso ad esorcismi; oppure la persecuzione e il rogo. L’atteggiamento magico è individuale o settario, l’atteggiamento religioso è collettivo e corale. Raramente si lascia al folle – come avveniva nella cultura greca o in alcune culture di altri continenti – il ruolo di vate o profeta.

Non mancano, seppure rarefatte in strati culturali molto sofisticati, spiegazioni psicologiche: dovendosi intendere con questo termine non i significati correnti, ma il riferimento alle “affezioni dell’animo” come risultato di grandi crisi esistenziali ed emotive. Espiazioni, conversioni, “vite esemplari”, sublimazioni e la loro narrazione in (auto)biografie di santi sono manifestazioni, nella cultura religiosa del Medioevo, di un modo più ricco e raffinato di interpretare la dinamica degli stati mentali.  Si ricordi, per tutti, l’esempio delle Confessioni di Sant’Agostino.

È un’epoca singolare quella in cui fiorisce il Rinascimento italiano: la ricerca dell’armonia si mescola con l’attrazione per il soprannaturale. Prevale, fra tutte, la spiegazione religiosa della follia, sentita come possessione demoniaca, segno della maledizione e del peccato, la cui purificazione richiede sempre più spesso il ricorso a pratiche di tortura e al rogo.

All’idea di follia comincia ad associarsi quella di pericolosità, che permette di trovare un capro espiatorio per le numerose calamità (carestie, epidemie) che colpiscono le popolazioni. Comincia a prendere piede l’intolleranza verso il soggetto affetto da disturbi mentali.

A partire dalla fine del 1400, centinaia di migliaia di streghe e maghi (e tra loro molti pazienti psichiatrici) furono bruciati vivi sulle pubbliche piazze. (L’ultimo rogo per stregoneria avvenne in Polonia nel 1793.)

Gradualmente il destino del folle si confonde con quello del povero e del criminale.  La sua figura è vissuta come una minaccia alla quiete pubblica o all’ordine costituito. Va tenuto presente che le città e i poteri amministrativi si stanno organizzando nelle forme proprie della società moderna.

Le autorità preposte all’ordine pubblico dispongono, adesso, non solo di carceri, ma anche di luoghi di ricovero più o meno coatto (istituti di segregazione).

Anche se a volte si chiamano ospedali, questi luoghi non hanno niente in comune con gli ospedali moderni: per i folli sono essenzialmente luoghi di reclusione, a metà tra l’ospizio e il carcere, dove si riceve assistenza, ma anche punizioni e contenzione, e dove le condizioni igieniche e di vita sono molto precarie. Si badi bene: ufficialmente non è questa l’origine del manicomio, e tuttavia ne costituisce la prima immagine drammatica.

Con le nuove idee diffuse nel secondo Settecento dall’Illuminismo, e con l’affermazione dei diritti dell’uomo e del cittadino propagati dalla Rivoluzione francese, si chiudono gli istituti di segregazione e riprende a diffondersi la spiegazione della follia in termini di malattia. La condizione del folle, almeno in linea teorica, viene distinta da quella del povero e del criminale, e si comincia a pensare ad un trattamento in termini esclusivamente medici.

Così il manicomio, istituzione creata da Philippe Pinel in Francia durante la Rivoluzione, diventa il luogo di cura dei malati. Questa nuova istituzione, che durante il secolo si diffonde in tutta Europa, costituisce un passo avanti rispetto ai reclusori del passato, perché è basata su obiettivi di cura e di ricerca medica. Tuttavia rappresenta la continuità con i luoghi di segregazione precedenti, dal momento che la “cura” coincide con l’obiettivo del controllo dei malati.

Dal punto di vista istituzionale, in questo periodo, non accade praticamente nulla. In sostanza, l’istituzione manicomiale si perfeziona, e in questo modo reclude e isola sempre più tenacemente, oltre ai pazienti, anche se stessa: si specializza nella funzione sociale di contenitore della follia, ma viene meno ad ogni effettivo programma di cura e di riabilitazione. La psichiatria stessa, più o meno implicitamente prigioniera del pregiudizio dell’organicità, si isterilisce in una sorta di esercizio classificatorio: disturbi, sintomi, comportamenti vengono minuziosamente attribuiti a questa o a quella patologia, salvo ricorrere poi sempre alle stesse cure di carattere sedativo.

Alla fine degli anni Trenta iniziano a diffondersi le terapie di shock basate sull’ipotesi che un trauma elettrico, febbrile, ipoglicemico ecc., opportunamente indotto, avesse virtù terapeutiche. Tra tutte queste terapie la più diffusa e conosciuta è l’elettroshock.

Se l’istituzione manicomiale resta immobile, viceversa, con l’inizio del XX° secolo, prende avvio la più ampia rivoluzione storica nel campo delle conoscenze psicologiche. Il primo nome da ricordare, naturalmente, è quello di Freud; ma non si tratta del cambiamento prodotto da una sola persona, né soltanto della nascita della psicoanalisi. Un vasto moto di rinnovamento radicale, che lavora a margine rispetto alla ortodossia accademica e manicomiale, sconvolge la psicologia generale e la psichiatria. In particolare, confluiscono e trovano riscontro nelle nuove tendenze i risultati dell’antropologia e della riflessione fenomenologica. Alla luce di questi nuovi indirizzi viene riveduto il concetto di identità della persona, del rapporto tra individuo e contesto sociale, dei confini tra salute e malattia mentale.

Dalla metà degli anni Cinquanta vengono introdotti gli psicofarmaci: sostanze che, indipendentemente dai risultati curativi, hanno l’effetto di attenuare i sintomi più gravi e vistosi, e di rendere più governabili i momenti di crisi. È evidente l’uso ambiguo degli psicofarmaci: per un verso costituiscono un ulteriore strumento di controllo dei pazienti; per altro verso, aiutando i soggetti sofferenti nelle situazioni più difficili, facilitano la sperimentazione di soluzioni alternative al manicomio tradizionale.

Ai progressi sul fronte teorico e sperimentale cui abbiamo accennato, fa riscontro, a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, un intenso fermento di iniziative che si pongono in alternativa all’ordine psichiatrico istituzionale. In Inghilterra si sviluppano gli esperimenti delle “comunità terapeutiche” e dell'”anti-psichiatria”; in Francia nascono i tentativi della “psicoterapia istituzionale” e della “psichiatria di settore”; nella Germania Federale va segnalata l’esperienza del Collettivo socialista dei pazienti di Heidelberg, la prima auto-organizzazione di pazienti.  

Queste iniziative peccano spesso di mancanza di sistematicità o di eccessivo radicalismo. Ma hanno il merito di rinnovare profondamente la psichiatria su due aspetti vitali: in primo luogo recuperano l’idea di curabilità e di guarigione del disturbo mentale, cui la psichiatria istituzionale aveva di fatto rinunciato; in secondo luogo superano il pregiudizio per cui la sofferenza mentale deve essere interpretata in base al modello medico-organicista, e aprono la strada al trattamento psicoterapeutico. Così, tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, prende piede una nuova realtà: in maniera sempre più pressante si avvertono, specie nei paesi con struttura sociale ed economica più avanzata, i limiti della psichiatria di impianto ottocentesco e le rigidità create dall’istituzione manicomiale.

In questo scenario si innesta, a partire dagli anni Sessanta, il Movimento italiano di negazione istituzionale. Prima di parlarne è opportuno dare un rapido sguardo alla situazione della psichiatria nel nostro Paese.

 

Nella storia della psichiatria italiana di questo secolo possiamo sinteticamente distinguere tre periodi.

  1. Il periodo manicomiale

Il 1904 costituisce una data importante per la storia dell’assistenza psichiatrica in Italia. In quell’anno viene finalmente proposta e promulgata, per interessamento diretto di Giolitti, la legge 36, attesa e richiesta da almeno una trentina di anni, che regolamenta l’assistenza manicomiale. Questa legge, con alcuni successivi aggiustamenti, determina per l’Italia, come era avvenuto per altri paesi europei, il consolidamento giuridico e scientifico del manicomio come luogo pressoché esclusivo per il trattamento dei disturbi mentali. Rispetto al passato, costituisce un progresso: ma la figura del paziente psichiatrico è sostanzialmente quella di un carcerato. Si è ricoverati in quanto persona “pericolosa” e di “pubblico scandalo”; il ricovero è possibile solo sotto forma di provvedimento del magistrato o del questore (si viene ricoverati dalla polizia); il direttore, del manicomio è responsabile penale e civile del “paziente dimesso”. In tale regime, nella stragrande maggioranza dei casi, i disturbi dei ricoverati diventavano cronici.

  1. Il periodo manicomiale attenuato

Nel 1968 lo scenario italiano cambia. Viene approvata una nuova legge, la 431. Cosa stabilisce questa legge che prende atto dei fermenti e delle spinte di rinnovamento? a) l’insufficienza dell’assistenza psichiatrica basata esclusivamente sull’internamento in manicomio; b) l’istituzione di un servizio di assistenza psichiatrica territoriale attraverso la creazione dei centri di igiene mentale; c) la possibilità di entrare in manicomio anche volontariamente; d) l’abolizione dell’obbligo di annotare nel casellario giudiziario l’ammissione e la dimissione dal manicomio; e) nuovi criteri di organizzazione degli ospedali psichiatrici.

Il legislatore italiano, dunque, si mostra particolarmente sensibile alle esigenze di una totale revisione della concezione della malattia mentale e dei suoi modi di cura. Con questa legge inizia in Italia il sistema di assistenza territoriale; tuttavia questa innovazione costituisce ancora una fase di passaggio.

  1. Il periodo territoriale

Tocca alla legge 180 del 1978 portare a compimento questo lungo cammino. È necessario ricordare che la riforma definitiva del sistema psichiatrico italiano è dovuta al lavoro tenace di Franco Basaglia, iniziato diversi anni addietro nell’Ospedale psichiatrico di Gorizia e portato a compimento con il totale smantellamento dell’Ospedale psichiatrico di Trieste, avvenuto nel 1977, un anno prima dell’approvazione della legge 180. A Trieste, dopo sette anni di preparazione e organizzazione di un adeguato servizio territoriale, il manicomio chiude: i pazienti sono seguiti e assistiti attraverso una fitta trama di assistenza domiciliare e ambulatoriale per la terapia ordinaria, integrata da interventi e ricoveri brevi per le situazioni di crisi. Persone destinate alla reclusione cronica tornano a vivere, in famiglia o in piccole comunità, una esistenza dignitosa e autonoma.

Questa legge pone l’Italia all’avanguardia nel sistema psichiatrico internazionale e allo stesso tempo agisce da catalizzatore nei confronti della spinta all’innovazione presente negli altri paesi. Ovunque si fanno più solide ed estese le esperienze di gestione dell’assistenza psichiatrica senza ricorso all’internamento in manicomio.

Quando una persona attraversa l’esperienza del disturbo mentale è elevato il rischio della perdita di fondamentali diritti personali e sociali. Perciò è opportuno che le persone che soffrono di disturbi mentali, i loro familiari e tutti coloro che in diversi modi sono coinvolti e partecipano, direttamente e indirettamente, alla promozione della salute, conoscano le disposizioni attuali che regolamentano la cura e i trattamenti della persona.

La prima legge nazionale sull’assistenza psichiatrica, intitolata “Disposizioni e regolamenti sui manicomi e sugli alienati”, fu promulgata nel 1904 dal governo Giolitti e completata nel 1909 da un regolamento di esecuzione. In quanto legge di ordine pubblico essa metteva in primo piano il bisogno di protezione della società dai malati di mente, subordinando la “cura” alla “custodia”. L’internamento manicomiale così veniva motivato: “Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette da qualsiasi causa d’alienazione mentale quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo” (L. n. 36/1904).

Il ricovero avveniva con la certificazione di un medico e l’ordinanza del questore. Entro 15 giorni (tempo d’osservazione) il direttore del manicomio doveva trasmettere al procuratore della repubblica una relazione scritta; entro 30 giorni la persona veniva o dimessa o sottoposta a “ricovero definitivo”, e quindi interdetta: perdeva cioè i diritti civili, con la nomina di un tutore. L’eventuale cessazione del ricovero definitivo era vincolata a una certificazione di guarigione e avveniva sotto la diretta responsabilità del direttore, a meno che la famiglia non “ritirasse l’alienato” con l’autorizzazione del tribunale. L’assistenza psichiatrica era amministrata dalle province, ciascuna delle quali doveva dotarsi di un manicomio. Il ricovero poteva anche essere attivato dietro richiesta del paziente, ma si svolgeva con le stesse rigide regole.

Queste procedure sono rimaste inalterate fino al 1968, allorché viene votata in parlamento la legge n. 431, nota come legge Mariotti, che, oltre ad istituire il ricovero volontario, introduce la possibilità di trasformare il ricovero coatto in volontario, previo accertamento del consenso del paziente.

L’importanza di questa legge consisteva anche nel prevedere alcune trasformazioni organizzative dell’ospedale psichiatrico, tendenti ad equipararlo agli ospedali generali, e nell’istituire attività preventive e di postcura fuori dalle mura manicomiali.

La legge 180, approvata il 13 maggio 1978 (Norme per gli accertamenti e i trattamenti sanitari volontari e obbligatori), inserita in seguito nella legge di Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (833/23 dicembre 1978), stabilisce che è il diritto della persona alla cura e alla salute, e non più il giudizio di pericolosità, alla base del trattamento sanitario anche in psichiatria. Tale trattamento è di norma volontario e viene effettuato, come la prevenzione e la riabilitazione, nei presidi e nei servizi extra-ospedalieri, operanti nel territorio. Qualora vi siano “alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici”, e si siano rivelati inefficaci tutti i tentativi in tal senso, persistendo il rifiuto delle cure da parte del soggetto, può essere richiesto il trattamento sanitario obbligatorio (Tso), che può essere attuato presso qualsiasi struttura territoriale di salute mentale, e anche a domicilio del paziente; nel caso in cui si reputi necessaria la degenza ospedaliera, il Tso verrà eseguito presso i servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) istituiti presso gli ospedali generali. La proposta di Tso, fatta da un medico e convalidata da un altro medico del servizio pubblico, viene inviata al sindaco il quale, oltre ad emettere l’ordinanza, avvisa il giudice tutelare in quanto autorità deputata a garantire i diritti del paziente. Dopo una settimana, nel caso in cui il Tso debba proseguire, esso dev’essere di nuovo motivato dal medico; in ogni caso, anche durante il Tso occorre fare ogni sforzo per ricercare il consenso alle cure da parte del paziente, al quale devono essere garantiti diritti di libera comunicazione ed eventuale ricorso contro il provvedimento.

La 180 stabilisce altresì che negli ospedali psichiatrici non debba più essere ricoverato nessuno, mentre vengono concesse deroghe – rinnovate poi per alcuni anni – all’ammissione di pazienti ricoverati prima del maggio ‘78.

Gli ospedali psichiatrici, che devono essere gradualmente superati, diventano strutture ad esaurimento, e nel marzo 1999 il ministero della Sanità ne ha annunciato l’avvenuta, definitiva chiusura. La 180 è stata emanata come legge quadro, che rinviava ad un Piano sanitario nazionale: “…i criteri e gli indirizzi ai quali deve riferirsi la legislazione regionale per l’organizzazione dei servizi fondamentali e per l’organico del personale…, le norme generali per l’erogazione delle prestazioni sanitarie, gli indici e gli standard nazionali da assumere per la ripartizione del Fondo sanitario nazionale tra le regioni”. È invece accaduto che le leggi regionali sono state formulate con gravi ritardi, in modo frammentario e spesso contraddittorio rispetto alla legge nazionale, mentre il Piano sanitario nazionale è stato realizzato con difficoltà. Solo nel 1994 è stato emanato il primo Progetto obiettivo salute mentale; nel frattempo la 180 non è stata adeguatamente finanziata e implementata.

In questo contesto occorre sottolineare che la Regione Friuli-Venezia Giulia ha recepito pienamente le indicazioni della riforma con la legge n. 72/23 del dicembre 1980, dando avvio a un positivo processo di cambiamento.

Non a caso questa legge regionale viene considerata un modello di corretta attuazione della 180; molte sue indicazioni sono state fatte proprie dal Progetto obiettivo tutela salute mentale 1998/2000, approvato nel novembre 1999 (Dpr 274/1999).

Nel 1978 è stato sancito nel nostro paese il diritto alla salute e all’assistenza sanitaria. Gratuita fino al 1990, l’assistenza sanitaria è stata poi sottoposta ad un regime di rimborso parziale con il pagamento di ticket, sebbene buona parte dell’assistenza rimanga tuttora gratuita. Ogni anno l’Italia spende per la sanità intorno ai 67 miliardi di euro (130.000 miliardi di lire circa); in più circostanze si è convenuto che la spesa per la salute mentale dovrebbe utilizzare il 5%, cioè 3,5 miliardi di euro.

Ai fini dell’organizzazione dell’assistenza sanitaria l’Italia è stata divisa in unità territoriali amministrative, denominate fino al 1995 unità sanitarie locali (Usl) e successivamente trasformate in aziende ex-Usl, o aziende per i servizi sanitari (Ass), in seguito alla legge 502/92. Ciascuna azienda copre un’area territoriale che va da un minimo di centomila a un massimo di cinquecentomila abitanti o più; amministra tutta la sanità del territorio di competenza, quindi anche l’assistenza psichiatrica.

Lo stato stanzia l’intero finanziamento alle 20 Regioni e Province autonome; a loro volta le Regioni, attraverso il servizio sanitario regionale, governano con una certa autonomia, erogando, sulla base dei piani sanitari annuali, i finanziamenti alle aziende del proprio territorio.

L’approvazione nel 1994 del primo Progetto obiettivo nazionale per la salute mentale segna una tappa storica nelle vicende dell’assistenza psichiatrica italiana; a sua volta, il secondo Progetto obiettivo (1998-2000) precisa quali debbano essere le strutture e i servizi dei dipartimenti di salute mentale (Dsm), ne definisce gli standard di funzionamento e di fatto conferma, sviluppandoli ulteriormente, i contenuti della legge 180.

Si conclude così un ciclo, durato oltre vent’anni, di avvio e sperimentazione della riforma caratterizzato dalla contrapposizione – al loro interno e tra di loro – di operatori, familiari, amministratori, politici e settori dell’opinione pubblica.

Il Progetto obiettivo è un provvedimento utile allo sviluppo qualitativo e quantitativo dell’assistenza psichiatrica per almeno cinque ragioni:

  • sancisce il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici;
  • individua, quale modello organizzativo più idoneo a garantire la continuità terapeutica e l’unitarietà degli interventi, il dipartimento di salute mentale, inteso come un insieme integrato di strutture e di servizi, a direzione e coordinamento unici;
  • precisa che il servizio psichiatrico di diagnosi e cura è parte integrante del Dsm anche se collocato in ospedale e/o in un’azienda sanitaria diversa da quella dei servizi territoriali;
  • sottolinea la necessità di valutare gli esiti degli interventi e la qualità dei servizi dei Dsm, dotati di autonomia finanziaria al fine di valutarne l’efficienza;
  • promuove una nuova fase caratterizzata dalla valutazione delle molte – spesso contrastanti – tipologie di servizi e metodologie d’intervento.

In tutto il mondo vaste quote di popolazione vivono tuttora in condizioni di oppressione a causa di vari fattori: estrema miseria economica e culturale, mancanza di risorse nel proprio territorio o nella propria classe sociale, squilibri tra il Nord e il Sud, regimi politici autoritari e repressivi che non riconoscono o violano i diritti umani fondamentali. In un contesto caratterizzato da profonde disuguaglianze, le persone che soffrono di disturbi mentali costituiscono una delle minoranze più oppresse: non solo perché è quella a cui con maggiore frequenza vengono negati i diritti di cittadinanza, ma perché la negazione dell’accesso ai diritti è in questo caso legittimata da un malinteso statuto scientifico di malattia. Dato che la gran parte dei fondi destinati alla psichiatria viene a tutt’oggi investita per ospedalizzare o segregare in istituzioni chiuse le persone che soffrono di disturbi mentali, diventa una priorità l’impegno dei governi a promuovere politiche che nel prevedere la chiusura immediata di tutti i luoghi di contenzione e reclusione, diano impulso a programmi e interventi centrati sulla comunità e sul suo sviluppo. In questo passaggio appare particolarmente urgente la creazione di servizi di salute mentale in aree territoriali definite, con il mandato di identificare scelte operative, strategie di promozione della salute e di concreto accesso ai diritti. Occorre insomma cambiare il luogo della cura per cambiare i metodi della cura: non basta cambiare solo l’uno o gli altri. L’attenzione dev’essere spostata dalla malattia in sé alla totalità della persona: i suoi bisogni e diritti, ma anche le sue capacità e risorse. Nel prevedere la necessità di risposte articolate i programmi non devono essere rivolti solo all’individuo ma anche al suo contesto, alla sua rete di appartenenza e ai gruppi sociali di riferimento.

In altre parole, il compito delle politiche (sia dei governi centrali sia delle amministrazioni locali) diventa quello di promuovere la cittadinanza per le fasce più svantaggiate e vulnerabili della popolazione, innalzando la loro qualità di vita, favorendo la loro autonomia ed emancipazione (anche dalla dipendenza dai servizi), in modo che il concreto esercizio dei diritti accresca complessivamente le loro possibilità e capacità di scelta e di azione. Più in particolare alle persone che soffrono di gravi disturbi mentali occorre garantire:

  • la disponibilità di aiuti materiali e sussidi economici – anche transitori – per avere un reddito che consenta una vita dignitosa;
  • condizioni di habitat soddisfacenti: la propria casa, ma anche la possibilità di accedere ad appartamenti, comunità e residenze transitorie, protette e semi-protette, in fasi e cicli particolari di bisogno;
  • l’inserimento lavorativo in rapporto alle proprie esigenze, capacità e inclinazioni;
  • l’accesso all’istruzione, all’informazione, alla formazione;
  • l’accesso a contesti e a occasioni di socializzazione, nello svolgimento di attività finalizzate e di tempo libero.
  • Il governo centrale e le amministrazioni locali devono inoltre attivare programmi di educazione sanitaria per i cittadini, al fine di promuovere una diversa immagine del disturbo mentale, liberata da etichettamenti e pregiudizi.

Associazione Nessuno è un isola O.d.V.

Via Nella Berther 9/b – 25124, Brescia

Luogo di incontro

via Galileo Galilei 20 (stesso stabile Ospedale civile poliambulatori di via Biseo)-  25123 B

ISCRITTA AL NUMERO DI REPERTORIO N.117491 RUNTS PRESSO MINISTERO POLITICHE SOCIALE E FAMIGLIA.

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