Qualunque persona può attraversare stati di benessere, stati di disagio e, più raramente, di disturbo. Sappiamo che questo dipende dalle difficoltà, dai conflitti, dalle frustrazioni cui può andare incontro. Ma nella maggior parte dei casi si percorre anche il cammino inverso: una persona normalmente supera la condizione di disturbo e di disagio e torna a rivivere stati di benessere e di equilibrio.
Volendo fare un paragone, si può dire che vale per la vita psichica quello che avviene per la vita biologica: sano non è colui che vivendo sotto una campana di vetro evita ogni esposizione al contagio; sano è colui che essendo dotato di anticorpi è in grado di reagire adeguatamente alle aggressioni di agenti esterni.
Analogamente, una vita mentale sana e normale non è il risultato di un’esistenza indenne dalle sofferenze, ma di un’esistenza dotata di risorse che le permettono di superarle.
Parlando delle condizioni mentali, abbiamo indicato diversi fattori che influiscono su di esse, concludendo che ci sono fattori di rischio, che spingono verso le condizioni di disagio e di disturbo, e fattori protettivi, che costituiscono le risorse che permettono di recuperare equilibrio e benessere. È importante l’azione contemporanea delle risorse personali e sociali e dell’intrecciarsi dei fattori di rischio e di protezione.
Questi due tipi di fattori sono fondamentali tenendo presente che nessun evento, momento o particolare condizione in cui possiamo imbatterci nella vita è in assoluto un fattore di rischio o un fattore di protezione. Al contrario, sarà la nostra storia particolare, il modo in cui vi arriviamo e la viviamo, a rendere una certa occasione positiva o negativa.
Esistono risorse e strategie che muniscono l’individuo di opportuni fattori protettivi.
Di fronte alle possibili avversità della vita non tutti reagiamo allo stesso modo. Quasi tutti siamo esposti alla sofferenza (perdita di persone care, problemi lavorativi, ecc.), ma solo alcuni di noi sviluppano un disturbo psichico. Ciò avviene anche per i diversi modi di affrontare o tollerare una situazione di stress. La capacità di affrontare una difficoltà è detta coping.
C’è chi di fronte ad un pericolo fugge sempre senza fermarsi a pensare se è utile o meno affrontarlo; c’è chi invece lo affronta sempre, senza fermarsi a pensare se è utile o meno evitarlo; infine, c’è chi indifferentemente lo affronta o lo fugge, senza intrattenersi in una valutazione dei problemi.
Tutto questo può produrre insicurezza, perché i comportamenti adottati saranno quasi sempre inadeguati alla situazione e gli effetti negativi produrranno incertezza e scarsa fiducia in se stessi.
Se, viceversa, abbiamo avuto esperienze positive, in cui siamo riusciti a padroneggiare lo stress, a volte evitando il problema a volte aumentando lo sforzo per risolverlo, ci sentiremo via via più sicuri e sempre più capaci di affrontare nuove situazioni difficili.
Possono essere persone presenti, oppure far parte del ricordo del passato; persone note ma anche conoscenze nuove: persone che si propongono come modelli di comportamento, come fonti di apprendimento e di consigli, come punti di riferimento affettivo.
II riferimento a persone significative è un fattore primario e si attiva dal momento della nascita. L’esperienza di un rapporto significativo nei primi anni di vita, in genere con una figura genitoriale, costituisce la base a cui l’individuo dovrà fare riferimento, nello stabilire nuovi rapporti affettivi. Un individuo che nella prima infanzia non ha sperimentato stabilmente la protezione e la presenza di un adulto significativo, affronterà in seguito le difficoltà senza aspettarsi o cercare aiuto dall’esterno, o comunque, riterrà svalutante che qualcuno gli offra tale aiuto. Tale situazione costituisce un rischio per la salute mentale dell’individuo.
All’opposto, avere un rapporto significativo con una persona affidabile, aumenta la possibilità di reagire e di far fronte ai momenti critici e difficili della vita e più in generale di conservare equilibrio e serenità.
Tutta la letteratura scientifica contemporanea sottolinea l’importanza di questo concetto e si deve includere nei vari modi di intervento terapeutico.
La consapevolezza di poter contare sull’aiuto di una rete sociale costituisce una risorsa basilare per la salute mentale di ognuno di noi. I rapporti quotidiani con familiari, amici, colleghi di lavoro o l’appartenenza a gruppi religiosi, politici, scolastici o di altro genere possono svolgere una funzione protettiva importantissima. Questa funzione si manifesta principalmente in tre modi: tramite un sostegno emotivo, con informazioni e consigli, con aiuti materiali.
Poste le cose in questi termini, sembra che la salute mentale si fondi su un presupposto di natura volontaristica, o peggio ancora su una serie di doni di cui alcuni dispongono e altri sono privi. Cosa può fare – si obietta – chi di certe risorse non dispone? E non è uno dei primi effetti dello stato di disagio e di disturbo proprio la perdita di fiducia in se stessi e quindi della capacità di reagire efficacemente, di costruirsi una figura di riferimento insieme ad una rete sociale?
Ed eccoci all’aspetto non banale della questione: vivere protetti (avere un buon coping, una valida figura di riferimento, una rete sociale solida) non è un fatto misterioso e inspiegabile, ma il frutto di una pratica. Una pratica che per lo più viene attuata inconsapevolmente, per abitudini contratte con l’educazione e con l’imitazione dei modelli familiari o degli ambienti frequentati.
È evidente però che aumentando la cultura e la conoscenza di ciò che è utile alla salute, comportamenti spontanei si trasformino in una proficua ricerca attiva. I fattori protettivi sono il frutto di una pratica, e possono essere, seppure in misura soggettiva, acquisiti e potenziati: essi concorrono al rafforzamento dell’atteggiamento positivo che un individuo ha verso se stesso e alla sua capacità di realizzare una solida rete di relazioni sociali.
Momenti critici del ciclo vitale
Esistono nella vita di ciascuno, tanto a livello individuale che a livello familiare, momenti, età, situazioni particolarmente significativi e critici. Per esempio, alcuni momenti della vita individuale (infanzia, adolescenza, fine dell’istruzione, servizio militare – per gli uomini -, gravidanza e puerperio – per le donne -, pensionamento, vecchiaia) densi di tensioni che possono essere adeguatamente risolte, oppure possono dare luogo a disturbi. Anche la vita familiare ha momenti critici (nascite, separazioni, svincolo dei figli, lutti) nei quali si possono insediare disturbi.
Eventi stressanti particolari
Possono essere, sul piano delle apparenze, eventi negativi (un incidente, il licenziamento dal lavoro, difficoltà con suoceri o cognati, sovraccarico d’impegno per assistenza a un familiare anziano), ma possono essere anche eventi generalmente ritenuti positivi (l’inizio di un nuovo lavoro, il matrimonio, l’inizio di lavoro del coniuge, l’arrivo delle ferie ecc.): queste situazioni costituiscono altrettanti momenti in cui emergono le difficoltà di rapporto con i familiari, la necessità di compiere scelte, la necessità di mettere alla prova se stessi. Si possono avviare processi distorti e involutivi, si possono determinare e radicare stati di disagio che di nuovo inducono disturbi.
Condizioni tendenzialmente stabili di stress
Anche a prescindere da particolari eventi o momenti del ciclo vitale, il fatto di vivere in situazione ecologica (spazi fisici, ricchezza e qualità di stimoli), sociale (lavoro, amicizie, livello d’istruzione) e sanitaria (aspetti di prevenzione, qualità e tempestività di cure) permanentemente deficitaria e povera, costituisce fonte di disagio e aumenta la probabilità di disturbi.
Prevenzione
(Testo delle Raccomandazioni del Comitato nazionale di bioetica)
“Destinare e utilizzare da parte delle istituzioni nazionali e regionali, anche tenendo conto dell’importanza che l’OMS attribuisce alla salute mentale, i Fondi sanitari nazionali e regionali necessari ad istituire almeno tutti i servizi previsti dal Progetto obiettivo “Tutela della salute mentale” 1998-2000.
Più in particolare, la contenzione meccanica deve essere superata in quanto lesiva della dignità del paziente.
Il progetto terapeutico personalizzato
Abbiamo già accennato, a proposito del pregiudizio dell’organicità, al fatto che per la psichiatria il concetto di cura è diverso da come viene inteso nel resto della medicina. Non si tratta, infatti, di una malattia del corpo che si deve curare solo con farmaci o interventi chirurgici, bensì modificando alcuni aspetti psicologici, e spesso anche alcuni aspetti dell’ambiente sociale e di vita, che fanno vivere male una persona.
Con la chiusura degli ospedali psichiatrici è stato necessario allargare il concetto di terapia; in passato si cercava di isolare “la malattia allo stato puro”, in manicomio, lontano dalle cause di disturbo e dalle interferenze della vita; oggi si osservano e si curano “le persone nella loro interezza” storica, sociale, familiare e culturale.
Si passa, così, dalla cura della malattia alla cura della persona. Ma per fare questo occorre mettere in campo nuove idee, nuovi metodi per capire e valutare il paziente. E poiché non si tratta di curare specifiche malattie, ma di prendere in cura una persona che si trova a vivere una situazione di disagio o di disturbo psicologico più o meno grave, diviene semplicistico parlare di “guarigione”, se con questa parola, si pensa alla scomparsa dei sintomi.
Se, invece, ci si riferisce alle ragioni che hanno portato alla sofferenza, sarà necessario analizzare complessivamente la vita della persona che sta male per determinare un cambiamento, vale a dire per arrivare a trasformare le sue condizioni psicologiche e di relazione, e ricostruire nuove forme di benessere e di equilibrio. Per determinare un cambiamento è necessario concordare un progetto terapeutico personalizzato: individuare e programmare interventi ritenuti più utili per quella persona in quel momento della sua vita.
Si tratta, dunque, di fornire una molteplicità di risposte che attraversano più campi operativi: psicologico, familiare, sociale. Le risposte possono essere date e organizzate da un’équipe composta da diverse figure professionali: psichiatri, psicologi, assistenti sociali, infermieri, cui tocca la presa in carico effettiva dell’utente, al di là di quella formale del medico curante.
Il presupposto per la buona costruzione e conduzione di un progetto terapeutico è dato dallo stabilirsi di un rapporto collaborativo tra paziente e operatore. Questo è il momento che richiede l’espressione delle migliori risorse personali e qualità professionali dell’intera équipe.
Ogni progetto terapeutico è un’associazione, sempre originale, di cinque tipi di intervento e può prevedere l’utilizzazione di uno, più di uno o anche di tutti i tipi d’intervento. Ciascun tipo può essere utilizzato una sola volta o molte volte. Nella pratica, come non esiste una persona perfettamente identica ad un’altra, non esistono due progetti perfettamente uguali, perché ci si trova ad affrontare situazioni simili ma non uguali: appunto in questo senso si parla di progetto terapeutico personalizzato.
Di conseguenza esistono progetti più o meno complessi: da quelli che si limitano all’utilizzazione di un solo tipo di intervento per poche volte, a quelli che prevedono l’utilizzazione di tutti i tipi anche per molte volte.
1) Il colloquio terapeutico:
è la base di ogni progetto terapeutico; molti progetti si risolvono in una breve serie di colloqui, altri necessitano di un trattamento più lungo. L’obiettivo è quello di attenuare o eliminare i sintomi; ma anche di fare acquisire al paziente modelli di comportamento più adeguati alle esigenze della sua esistenza.
Non è facile dire come si raggiungano tali obiettivi. Certamente l’aspetto più significativo del colloquio con un operatore psichiatrico consiste nella possibilità di stabilire un contatto importante fondato sulla fiducia e sulla solidarietà. Questo si traduce in un rapporto intimo tra operatore e persona sofferente. In questo spazio di relazione riservata, tutelata dal segreto professionale, l’operatore psichiatrico è disponibile nei confronti della persona che esprime il bisogno di essere liberamente ascoltata e nel tempo aiutata, rispettando il senso della sua sofferenza.
Gli argomenti sono scelti dal paziente e concordati con il terapeuta momento per momento. Di fatto sono potenzialmente infiniti e riguardano le aree della vita, cioè i momenti significativi dell’esistenza della persona, in senso attuale ma anche storico: la sfera familiare e coniugale, quella affettiva e sessuale, quella lavorativa o scolastica, le amicizie, gli hobby, ma anche le malattie, i trattamenti medici, la paura della morte. In una o più aree emergeranno frustrazioni, conflitti e condizioni di stress responsabili della condizione di disagio e di disturbo.
Specie nei primi colloqui l’analisi delle aree della vita viene utilizzata per giungere ad una valutazione operativa della condizione di sofferenza del paziente, indispensabile per costruire un progetto terapeutico personalizzato.
Al di fuori del rapporto specialistico, l’analisi delle aree della vita è il modo attraverso cui ciascuno di noi può farsi un’idea dell’esistenza della persona che si vuole aiutare valutandone anche il grado di sofferenza-benessere.
Si tenga infine presente che, in genere, la persona sofferente si rivolge per la prima volta ad un terapeuta in un momento di crisi, spesso in una fase di crisi acuta. Questo significa che il primo contatto tra paziente e curante avviene in una situazione difficile, nella quale, prima di poter avviare qualsiasi progetto, si deve provvedere a superare lo stato di alterazione e di angoscia, e a riaprire i normali canali di comunicazione. Solo successivamente, quando lo stato del paziente è tornato a livelli più fruttuosi di scambio, il colloquio può passare all’analisi dei problemi dell’esistenza del soggetto.
2) L’intervento sulla famiglia:
può riguardare la famiglia in senso stretto o estendersi al più ampio contesto di parenti o di amicizie in cui il paziente vive. Serve per avere una conoscenza migliore di quanto il paziente riferisce in sede di colloquio: ma lo scopo principale è quello di modificare atteggiamenti e rapporti, che spesso si rivelano inappropriati, con le persone che gli sono vicine.
Nella grande maggioranza dei casi, l’intervento sulla famiglia, o comunque sullo spazio di relazioni più intime del paziente, costituisce il momento terapeutico strategico. Spesso è proprio in questo spazio che si producono e si stabilizzano le alterazioni più gravi. Spesso il paziente è solo la punta emergente della difficoltà, nei rapporti affettivi, che investe tutti i membri della famiglia. È abbastanza frequente, quindi, che il progetto terapeutico finisca per investire l’intero gruppo familiare. Ma è anche all’interno di tale gruppo che la terapia si può scontrare con inerzie e resistenze.
I familiari, in genere, sono i primi a chiedere un aiuto terapeutico; ma sono anche i primi a ritenere che la vera terapia sia quella che si ottiene con le medicine, o con un trattamento che resterà comunque limitato al rapporto tra il paziente e chi lo cura. E questo è un atteggiamento che si deve superare.
3) L’intervento socio-terapeutico:
possiamo immaginare le relazioni sociali di una persona come uno spazio di sfere concentriche. La sfera più interna comprende le relazioni più intime, quelle familiari innanzi tutto, ed eventualmente quelle di qualche amicizia più stretta: l’intervento sulla famiglia (che abbiamo indicato sopra) si limita a questa prima sfera. L’intervento socio-terapeutico si estende, invece, ad altri contesti e luoghi di vita nei quali il paziente è inserito, come l’ambiente di studio o di lavoro. Lo scopo dell’intervento in questa seconda sfera è di ridurre i fattori di disagio e di rinforzare o ampliare la rete dei rapporti dell’individuo in sostanza, l’intervento socio-terapeutico ha l’obiettivo di ricostruire o di consolidare il ruolo sociale della persona.
Inoltre, con l’intervento socio-terapeutico, se necessario, si potrebbero erogare sussidi economici, si agevola il reinserimento lavorativo, si organizzano soggiorni estivi, si collabora all’occupazione del tempo libero.
4) Il ricovero:
nella maggioranza dei casi è motivato da condizioni di gravità tali che rendono indispensabile un’assistenza continua anche se limitata nel tempo. Esistono tuttavia vari tipi di ricovero, condotti con finalità diverse. C’è quello deciso dal terapeuta, indipendentemente dalla volontà del paziente, di cui abbiamo parlato a proposito del trattamento sanitario obbligatorio. Ma il ricovero psichiatrico può far parte di un progetto terapeutico più collaborativo, e risultare quindi concordato tra operatore e paziente (ricovero concordato).
Ciò si verifica specialmente quando entrambi convengono sulla opportunità per il paziente o di essere più protetto, perché incapace di autogestirsi, o di essere allontanato dal contesto familiare e di vita abituale. Il ricovero non deve comunque mai limitare la libertà del cittadino né ledere i suoi diritti. I ricoveri effettuati in servizi psichiatrici moderni e attrezzati consentono di abolire la pratica della contenzione. Con questo termine si intende la condizione di immobilizzazione fisica del ricoverato che viene legato al suo letto tramite apposite fasce. Tale metodo viene spesso usato per supplire alla carenza di personale o peggio perché ritenuto una necessità terapeutica: di fatto la contenzione è solo mancanza di mezzi e di professionalità nel gestire il paziente psichiatrico in fase acuta. Va infine tenuto presente che il ricovero non avviene solo tra le mura di una struttura ospedaliera. Esso, a seconda delle necessità che lo determinano, può attuarsi in un’ampia gamma di luoghi cui accenneremo più avanti parlando delle strutture protette.
5) L’intervento psico-farmacologico:
gli psicofarmaci sono sostanze usate in psichiatria per il trattamento del disagio e del disturbo psichico.
Senza dubbio la loro scoperta e il loro uso hanno portato un notevole contributo nel trattamento psichiatrico. Va tenuto presente che proprio nelle situazioni di crisi acuta o di persistente malessere, gli psicofarmaci permettono ai pazienti di mantenere, almeno in parte, la loro vita familiare e lavorativa, riducendo al minimo i casi in cui diventa necessario il ricovero.
Ma sull’uso degli psicofarmaci sono sorti anche parecchi equivoci e illusioni. L’equivoco maggiore è che da soli costituiscano una cura sufficiente; mentre è ormai risaputo e accettato, anche da punti di vista scientifici differenti, che essi curano i sintomi ma non intervengono sui fattori che hanno indotto il disturbo. Inoltre, degli psicofarmaci si tende ad abusare, ad utilizzarli all’insorgere di piccoli malesseri o di fronte a normali difficoltà o sofferenze della vita quotidiana. In alcuni casi si giunge all’autoprescrizione, senz’altro sconsigliabile. Sta di fatto che il loro consumo è enormemente aumentato anche per la grande propaganda promossa dalle case farmaceutiche che dal mercato degli psicofarmaci traggono enormi profitti.
L’assunzione impropria degli psicofarmaci è il segno della rinuncia a stabilire una relazione terapeutica valida, che possa aiutare la persona a superare le proprie ansie e chiarire i propri conflitti.
Gli psicofarmaci inducono molti effetti collaterali, in alcuni casi molto gravi, ma sono utili nel trattamento dei disturbi mentali, purché vengano rispettate alcune condizioni: tocca solo allo psichiatra prescrivere neurolettici, non al medico di base, che deve limitarsi all’uso degli ansiolitici e degli ipnotici; non devono essere prescritti più farmaci dello stesso gruppo alla stessa persona; non devono essere assunti per lungo tempo (non più di alcuni mesi); un progetto terapeutico non può essere basato esclusivamente sulla prescrizione di psicofarmaci.
Quando un disturbo mentale perdura nel tempo si parla di stabilizzazione del disturbo.
Impropriamente si dice ancora, per scarsa informazione, che il disturbo è “cronico” o che si è “cronicizzato”. Sono vecchi termini, presi dal linguaggio medico, che non dovrebbero essere usati perché generano malintesi e idee sbagliate: quelle che portano, come abbiamo visto all’inizio di questa guida, al pregiudizio della inguaribilità. Per la medicina organica, infatti, un disturbo cronico è uno stato di malattia non solo persistente ma anche irreversibile, che generalmente comporta una menomazione permanente.
I disturbi mentali, invece, anche se presenti da molti anni possono, se ben trattati, migliorare o scomparire tramite adeguati percorsi di riabilitazione psichiatrica. Vogliamo ricordare, in proposito, quanto detto sul pregiudizio della inguaribilità e su alcuni disturbi classicamente ritenuti inguaribili o cronici (paranoia, schizofrenia ecc.). A seguito dei nuovi trattamenti, all’uscita dal manicomio, una alta percentuale di soggetti ritenuti inguaribili hanno potuto riprendere abitudini di vita non più praticate, o comunque ritenute irrecuperabili dalla psichiatria organicistica tradizionale. Molti, al di là di ogni aspettativa, sono stati messi in condizione di raggiungere un livello di vita soddisfacente.
Nel caso di un disturbo psichico, bisogna tenere presente che esso si radica nel tempo e diviene stabile se concorre almeno uno dei tre fattori sotto riportati:
1) la persistenza dei fattori di disturbo: permangono i fattori che hanno indotto la sofferenza: il paziente è sottoposto costantemente alle carenze o alle stimolazioni che lo opprimono e lo destabilizzano psicologicamente;
2) la carenza di cure: il soggetto sofferente non riceve alcun tipo di attenzione e di trattamento per i propri disturbi, ovvero riceve attenzioni e trattamenti inadeguati:
3) la carenza ambientale: il soggetto si trova, più o meno gradualmente, immerso in un ambiente povero: isolamento sociale, difficoltà economiche, solitudine affettiva e materiale.
Anche sull’argomento dei disturbi stabilizzati è inevitabile, per capire meglio che cosa avviene e a che cosa si deve rimediare, fare un confronto: il punto di vista tradizionale, basato sui pregiudizi, vede nella “malattia cronica” un processo di disfacimento e di degenerazione (del sistema nervoso, di quello ormonale ecc.); il punto di vista psichiatrico globale vede nel soggetto sofferente un accumulo, una strutturazione di comportamenti inadeguati che vanno individuati e trasformati
La riabilitazione richiede l’attuazione di un progetto d’intervento a carattere terapeutico-riabilitativo che coinvolge globalmente il paziente nei vari aspetti della sua esistenza.
Occorre distinguere due fasi: riabilitazione clinica e riabilitazione sociale.
La prima si opera con strumenti terapeutici in strutture riabilitative (per esempio: centro diurno, centro di riabilitazione); la seconda presuppone la prima, ma si attua in un orizzonte molto più ampio, che tiene conto delle esigenze di vita abitative, relazionali e lavorative della persona. Essa va inserita o reinserita in un contesto in cui la persona possa sviluppare le sue capacità, intere o residue, di stabilire relazioni amichevoli e affettuose; di avere una parziale o totale autonomia abitativa, di trovare un’occupazione lavorativa stabile o saltuaria.
Nel complesso, si tratta di un obiettivo che la persona affetta da disagio o disturbo mentale non riesce a realizzare da sola, ma che deve perseguire con l’aiuto dell’equipe terapeutica, coinvolgendo l’assistente sociale e tutte le risorse disponibili sul territorio. Solo la presenza integrata dei servizi territoriali nella realtà sociale consente la riabilitazione sociale.
Luogo di incontro
via Galileo Galilei 20 (stesso stabile Ospedale civile poliambulatori di via Biseo)- 25123 Brescia
ISCRITTA AL NUMERO DI REPERTORIO N.117491 RUNTS PRESSO MINISTERO POLITICHE SOCIALE E FAMIGLIA.